Il bisogno dell'esotico. Il bisogno di fuga ed avventura che è in tutti noi. Il bisogno dell'Occidente di attribuire ad un luogo altro qualcosa che non ha e che non è, o che forse non ha più e che non è più.
Questa stessa necessità non poteva non toccare una sfera così importante per l'essere umano: il suo rapporto con l'assoluto.
L'Asia - come è noto - è il posto ideale per ricongiungersi con il metafisico, ovvero con ciò che non trova più posto nelle società ormai pressoché totalmente organizzate dell'Occidente. Ed oggi più che mai, alle prese con un nichilismo sempre più distruttivo, il pragmatico Occidente ha un bisogno smodato di spiritualità, se non altro per dare un senso più o meno vago all'insensata accumulazione di capitale. Ma tuttavia è fondamentale che questo moto spirituale sia situato altrove, a distanza di sicurezza, lontano dal cuore e dalla mente in maniera da non interferire con la vera struttura dell'intero apparato, che in verità ben poco ha a che vedere con lo spirituale.
Non si può negare che vi sia spiritualità in Oriente e certamente rappresenta una delle sue caratteristiche più pronunciate. Ma tuttavia, al di là dello spirituale che ritrovo qui, devo dire che, ai miei occhi, nessun'altra terra ha una così grande carica umana come l'Indonesia e l'Asia in generale. E devo dire che quella che io percepisco qui, ogni giorno ed ogni ora, è piuttosto un'umanità che una spiritualità. Al di là del misticismo che si ritrova in questi luoghi, è l'umanità delle persone la cosa che più di tutte stupisce. Questa è la caratteristica più comune ai popoli asiatici, il loro essere, alla lettera, umani.
E mi fa ridere il fatto che - almeno nei termini - umanità e spiritualità siano in qualche modo un ossimoro, ovvero che siano in contraddizione fra loro: quella che l'Occidente reputa patria della spiritualità ai miei occhi appare nient'altro come patria dell'"umanità"!
Del resto, tuttavia, non si tratta di un ossimoro: la contraddizione è solo apparente. L'umanità è spiritualità.
La spiritualità asiatica la si tocca con mano, la si vede negli occhi della gente, la sia ascolta nelle voci delle persone, la si percepisce nei loro cuori.
"M'intrattengo a ragionar di politica, d'amore, di teorie del gusto, di filosofia, e il mio spirito abbandonato a tutte le sue voglie sa di poter seguire in pieno libertinaggio la prima idea che si presenta, saggia o matta che sia; così come i giovani scapestrati dietro alle cortigiane, che li si vede seguirne una dall'aria svagata, occhi lustri, naso all'insù, poi lasciar quella per un'altra e in fine abbordarle tutte e non tenersi alcuna. I miei pensieri sono le mie puttane" Denis Diderot
martedì 14 dicembre 2010
venerdì 3 dicembre 2010
La poligamia secondo Vincenzo
Sono stato scortese oggi in classe. Scortese con tutti gli indonesiani che c'erano. Con loro, che sono così formali e gentili.
Oggi non mi andava di rispondere alle solite domande, del tipo: "Sei sposato?", "Dove abiti?", "Qual è il tuo piatto preferito?" e così via... No. Oggi no.
Forse perché in questo ultimo periodo sto frequentando prevalentemente occidentali e meno i locali.
Le azioni di un europeo sono sempre finalizzate ad uno scopo pratico; invece quelle di un asiatico no. Forse esagero nel mio giudizio, ma è mia convinzione che per quanto poco disinteressata sia l'azione di un asiatico, lo è meno di quella di un europeo, e comunque in maniera diversa.
E in un certo senso questo mattina mi prendevo gioco della insensatezza delle domande che mi venivano poste, della loro assoluta inutilità: presto tutta questa gente andrà via ed io non li vedrò più (andranno via tra meno di una settimana). E provavo una certa goduria nel dire che avevo cinque mogli, una per ogni continente, mantenendo un'espressione seria, così da mettere in difficoltà il mio interlocutore. La mia fierezza europea, insieme al mio pragmatismo, erano lì a guardarmi e a gioire della (presunta) superiorità dell'ironia dell'uomo bianco.
E così adesso, a freddo, mi rendo conto del perché amo l'Asia e della lotta che c'è dentro di me, tra una parte che vuole la pace tra i popoli e l'altra che vuole soltanto il predominio di uno solo. Una parte di me cede con gioia ogni cosa che posseggo mentre l'altra freme per una ricompensa. E questo opprimente gioco non tocca solo me, ma riguarda soprattutto le parti oscure di una cultura, quelle che non si leggono nei manuali di antropologia. Mi rendo conto che questa, come altre del resto, è una barriera reale tra i bianchi che vivono qui e gli indonesiani.
E quando alla fine della lezione sono spuntate le macchinette fotografiche, tutti - e dico tutti, anche quelli con cui ero stato chiaramente scortese - hanno voluto fare una foto con me. E hanno detto "facciamo una foto con il bulé" (= termine indonesiano che indica i bianchi, vagamente razzista), mentre i più audaci hanno detto "facciamo una foto con londo" (= termine giavanese, appellativo per gli olandesi, i colonizzatori, più marcatamente razzista). Mi sono prestato al gioco, rassegnato come un animale in gabbia, e finalmente ho provato cosa vuol dire essere diverso.
Iscriviti a:
Post (Atom)